Oscar 2021: i documentari candidati
I documentari nominati all’Oscar di quest’anno differiscono così tanto per argomento, approccio ed estetica che è difficile prevedere come andrà a finire. L’analisi di Antonio Gazzanti Pugliese di Cotrone.
In “Colette” di Anthony Giacchino, Colette Marin-Catherine, ex membro della resistenza francese, accetta, a 90 anni, di visitare il campo di concentramento di Nordhausen, in Germania, dove morì suo fratello anch’egli in resistenza. Una studentessa di storia, Lucie Fouble, l’accompagna.
Colette non rende romantico il racconto. Non era molto vicina a suo fratello, tanto più che la madre le disse che avrebbe preferito che fosse stata Colette a morire al posto suo. “Colette” mostra una complessità nella sua storia, che è contemporaneamente rinfrescante e spinosa.
È sempre uno scambio tra generazioni quello che avviene in “A Concerto Is a Conversation“, un op-doc del New York Times diretto da Ben Proudfoot e dal compositore Kris Bowers (la controfigura al pianoforte apparsa nel film “Green Book“, di cui ha scritto la colonna sonora).
Bowers descrive un concerto come una conversazione tra un solista e un ensemble. Intervista suo nonno, Horace Bowers Sr., che ha viaggiato per l’America in autostop da Bascom, in Florida, stabilendosi a Los Angeles. Ha costruito un business di successo ottenendo prestiti per corrispondenza. Se li avesse chiesti di persona – dice – glieli avrebbero negati a causa del colore della sua pelle. Il film inquadra gli uomini in primi piani alternati, e parlano direttamente in camera, direttamente a noi.
Il candidato più ricco di azione è “Do Not Split” del giornalista Anders Hammer, che ha ripreso le proteste del 2019 a Hong Kong dall’interno. Nel film intervista i manifestanti sulle loro motivazioni e li mostra in azione, proprio nel mezzo di lacrimogeni e fiamme. Una colonna sonora pulsante, simile a “Tenet“, aggiunge un ulteriore plus alla pellicola. Le immagini di manifestanti che indossano maschere per proteggere la loro identità evocano inevitabilmente la pandemia, che arriva agghiacciante verso la fine: le strade, una volta piene di manifestanti, sono deserte.
“Hunger Ward” attira l’attenzione sulla minaccia di carestia nello Yemen seguendo due eroici operatori sanitari, entrambe donne: Aida Hussein Alsadeeq, un medico, e Mekkia Mahdi, un’infermiera, che fanno del loro meglio per tenersi in vita e sollevare lo spirito dei bambini malnutriti.
Ma il candidato stilisticamente più pieno d’imprevisti è “A Love Song for Latasha” (su Netflix), della documentarista sperimentale Sophia Nahli Allison. Latasha è Latasha Harlins, una quindicenne uccisa a Los Angeles nel 1991. L’indignazione per la sua sparatoria da parte di un droghiere è spesso citata come un fattore nelle rivolte del 1992.
Il film mescola interviste e filmati impiegando una grande quantità di modalità visive, e a volte adotta l’aspetto di una videocamera VHS. Quando l’amico di Tasha, Tybie O’Bard, condivide i ricordi dell’apprendimento della morte, “Love Song” si sposta verso l’animazione astratta. Questa è una mossa audace per un documentario e abbastanza inaspettata da far presagire un vincitore.
Chi vincerà? Lo scopriremo il 26 aprile 2021!
Antonio Gazzanti Pugliese di Cotrone