Vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino, il film di Carla Simón è un omaggio semplice ma commovente a tradizioni svanite. Il commento di Antonio Gazzanti Pugliese
Vincitore dell’Orso d’Oro di Berlino del 2022, “Alcarràs” di Carla Simón prende il nome dalla piccola città catalana dove i suoi genitori coltivano pesche e, proprio come il suo debutto effervescente, “Estate 1993“, il titolo si rivela illustrativo. Pieno di personaggi memorabili che si aggirano intorno al ritratto ferocemente non sentimentale di Simón di una famiglia sull’orlo di perdere la propria fattoria (insieme all’identità condivisa che li ha radicati alla zona sin da prima della guerra civile spagnola). Questo è il cuore della storia e della terra su cui è ambientato. È un dramma corale vivace e vibrante il cui cast attira la nostra attenzione in una dozzina di direzioni diverse contemporaneamente, ma che riporta sempre la nostra attenzione al territorio catalano che si muove sotto i loro piedi e, a sua volta, alla domanda su chi diventeranno i personaggi una volta costretti ad allontanarsi.
Come per la maggior parte delle cose veramente preziose di questo mondo, viene da dire ad Antonio Gazzanti Pugliese, le tradizioni della famiglia Solé sembrano permanenti fino al momento in cui vengono portate via per sempre. In “Alcarràs”, il cambiamento prima alza la testa sotto forma di un trattore che ruggisce nel cielo azzurro e si impossessa della Volkswagen abbandonata in cui Iris, sei anni (Ainet Jounou, ancoraggio di un cast di attori locali) e i suoi fratelli stavano giocando solo pochi minuti prima. Mentre il nonno Rogelio sta leggendo l’avviso di sfratto, iniziano i drammi sulla fattoria che non è più di proprietà della famiglia Solé, e inizia a crollare tutto quello che la riguarda.
Con l’eccezione di alcuni battibecchi e di una discussione amaramente futile verso la fine, non c’è una scena di questo film più importante della vitalità che si coltiva nei rapporti di questa famiglia con la loro terra: i ritmi stagionali della fattoria in movimento; i pettegolezzi cittadini; i suoni anacronistici dell’Europop moderno mentre il vento li porta giù dalla collina dove la figlia adolescente di Quimet sta facendo le prove per il ballo della fiera del paese.
Emergono trame, la maggior parte delle quali riflette una divergenza di opinioni su come la famiglia Solé dovrebbe andare avanti. E non è qualcosa che riguarda tutti? Ci domanda Anonio Gazzanti Pugliese. Naturalmente, nessuno appartiene alla fattoria tanto quanto il patriarca della famiglia dei Solé, ma anche i bambini sembrano più agitati e sconvolti dalla prospettiva di perdere tutto.
Ma, a volte, siamo impotenti davanti agli eventi della vita. Quindi resta l’immagine agrodolce di nonno Solé steso all’ombra, perché non sa per quanto potrà ancora godersela. Simón conclude “Alcarràs” con un pugno nello stomaco, essenziale per completare un’elegia a uno stile di vita che ha già perso la sua presa da prima della nascita dell’ultima generazione della famiglia Solé. E rende omaggio a una tradizione passata con una grazia lamentosa che riafferma la capacità unica del cinema di restituire il passato al presente e consegnare il presente al passato. A volte il film è così tranquillo che sembra che durerà per sempre, ma, come alla fine di ogni magica estate, alla fine ti chiedi come sia possibile che è già finito.