Recensione di The Last of Us

“The Last of Us”: la recensione della serie più acclamata dell’anno

L’adattamento televisivo di “The Last of Us” tiene testa alla sceneggiatura del videogioco, a dimostrare che cavallo che vince non si cambia. La storia: nel 2003, un’epidemia di un fungo infettivo che trasforma gli ospiti umani in mostri immortali lasciando il mondo in rovina. Vent’anni dopo, il sopravvissuto Joel (Pascal) è costretto a viaggiare attraverso gli Stati Uniti con l’orfana adolescente Ellie (Ramsey), che ha un segreto che potrebbe cambiare il mondo.

Uscito per PlayStation 3 del 2013, “The Last of Us” dell’azienda Naughty Dog è uno dei più grandi videogiochi di sempre, che ha segnato un’epoca. I giocatori assumevano i ruoli di Joel, un padre che aveva perso la figlia all’inizio della pandemia e diventato contrabbandiere del mercato nero, e la quattordicenne Ellie, un’orfana incontrata nella post-apocalisse, in un’America militarizzata e dominata dagli zombi. L’IP che ha segnato una svolta originale sul modello del thriller di zombi, ha aperto nuovi orizzonti con i suoi temi risonanti, con un gameplay intensamente fluido, e una scrittura insolitamente buona.

E c’è una domanda che ha ossessionato tutti prima della visione: ma perché prendere qualcosa che ha funzionato così bene e cercare di rifarlo? Era perfetto!

La risposta arriva dai co-showrunner Neil Druckmann (il creatore originale del gioco) e Craig Mazin (lo sceneggiatore/produttore dietro Chernobyl, altrettanto apocalittico e altrettanto eccellente). Il live-action The Last Of Us è un superbo esempio di come far funzionare un adattamento, di come conservare gli elementi di ciò che ha funzionato pur avendo la fiducia necessaria per esplorare nuove strade audaci, per espandere l’universo, per creare qualcosa che resista sui suoi due piedi. E hanno approfittato di questa occasione per dare una lezione a tutti.

The Last of Us la serie

Gli zombi in “The Last of Us” non sono non morti. Sono umani infettati da una versione truccata del fungo Cordyceps della vita reale, che assume le funzioni cerebrali delle creature, principalmente insetti. In “The Last of Us”, gli umani sono suscettibili a questa infezione fungina e diventano mostri maniacali e famelici. E a differenza di una pandemia virale, non esiste un vaccino.

L’interpretazione di HBO del videogioco ricalca e amplia la visione. Ci sono scene durante la prima stagione che sono riprese in linea diretta di scene chiave del gioco. I nove episodi seguono esattamente gli stessi ritmi della storia e quasi gli stessi luoghi del gioco originale. Le persone che conoscono il gioco a memoria saranno probabilmente in grado di recitare alcune battute proprio mentre vengono pronunciate nello spettacolo. E, in più, ne avranno la memoria fisica, perché avranno probabilmente fatto gli stessi movimenti di Joel in questa o quella situazione ed è una ricchezza indescrivibile che è impossibile provare altrove.

Seguiamo Joel (Pedro Pascal) ed Ellie (Bella Ramsey) nel loro difficile viaggio attraverso gli Stati Uniti post-apocalittici, da Boston al Wyoming, affrontando gli zombi (conosciuti qui come “infetti”), alla ricerca di una cura, o almeno di una sorta di vaccino.

Per chiunque abbia giocato al gioco, è un’esperienza a volte surreale vederne i momenti più iconici (il grattacielo crollato, le giraffe) magnificamente resi in live action. Ma – a parte un momento in cui Joel dice a Ellie che le “darà una spinta”, un cenno furbo a una delle meccaniche chiave del gioco – non sembra mai di guardare un videogioco.

Poiché “The Last of Us” era già strutturato e scritto come uno show televisivo, la versione della HBO è pronta per funzionare – e lo fa. Tratta bene la maggior parte delle scene chiave, con rispetto e amore.

Ad esempio, la storia dei fratelli Sam ed Henry, già personaggi cardine del gioco, viene ampliata a raccontare la loro difficile situazione e le ragioni per cui vogliono unirsi a Joel ed Ellie. Si sentono meno personaggi in una “ricerca secondaria” in un gioco, soprattutto perché la loro relazione ora traccia parallelismi più forti e chiari tra loro e Joel e suo fratello maggiore.

Il più avvincente di tutti gli episodi è il terzo: straordinario, quasi indipendente, che racconta l’intera storia di Bill, un personaggio molto minore interpretato da un superbo Nick Offerman. È reimmaginato qui come un sopravvissuto e originariamente pazzo cospirazionista, che si è preparato a sopravvivere agli zombi per tutta la vita, dimostrando che è possibile tirare fuori una buona distopia dalle rovine del mondo. Dire di più potrebbe rovinare l’esperienza; basti sapere che è una delle più belle ore televisive della memoria recente.

Questo, è ciò che è così impressionante di questo adattamento: quanto sia pienamente immerso in questo mondo. Con il vantaggio di un generoso budget HBO, c’è un incredibile senso di scala in questa apocalisse, dai piccoli dettagli – come il tizio che indossa una maglietta della campagna presidenziale di Al Gore, un particolare insignificante che però ci ferma nel tempo dei primi 2000 (quando le cose, chissà come sarebbero potute andare) – al CGI impeccabile, che ci porta davanti a una grande cinematografia e un sontuoso design di produzione.

E non è mai meno che incredibilmente bello.

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